L’isola in perenne siccità dove non manca l’acqua ma mancano le infrastrutture dell’acqua
Come scrivono su Greenreport del 14 maggio scorso la Sicilia era l’isola dell’acqua. Basterebbe ricordare quando c’era una volta la Conca d’Oro, la più bella pianura costiera tra i Monti palermitani e il mar Tirreno, il colpo d’occhio che abbagliava viaggiatori e scrittori come Johann Wolfgang Goethe che, giunto a Palermo nel 1787, incantato scrisse: «L’Italia senza la Sicilia non lascia immagine alcuna nello spirito. Qui è la chiave di ogni cosa». Palermo poi era spettacolare per le sue acque. Ai due lati vedeva scorrere due fiumi navigabili. Uno era il Kemonia, che gli arabi chiamavano «fiume del Maltempo» perché dilagava con le piogge, ormai del tutto interrato sotto la città. L’altro, il Papireto, era il «fiume d’Occidente», alimentato da copiose sorgenti montane, e tutt’intorno la stupenda vegetazione di papiri, oggi relegato a fogna a cielo aperto e sotterrato anche lui dal periodo borbonico.
L’Isola fu la prima area italiana ad essere colonizzata. Dai Sicani, l’antico popolo che la chiamò Sicania, poi da Cretesi, Elimi, Greci, Fenici, Punici, quindi Romani, Bizantini, Arabi, Normanni, Svevi, Francesi e Spagnoli. Palermo immagazzinava abbondanti volumi d’acqua di pioggia sotto le sue falde freatiche, con l’aggiunta di apporti idrici dalle montagne che la circondano delimitate dai fiumi Eleuterio e Jato. L’acqua non mancava mai, prelevata da pozzi e poi distribuita dai complessi e sorprendenti sistemi cunicolari di stampo mediorientale delle qanat.

Eruditi e viaggiatori medievali ci hanno lasciato descrizioni estasiate di fonti, sorgenti, piscine, fontane, peschiere e polle zampillanti che abbondavano dentro e fuori la cerchia delle mura. Il mercante di Baghdad Ibn Hawqal, nel 943, colpito da tanta acqua, scrisse: «… gli abitanti della città vecchia al pari di quelli della Halisah (la cittadella fortificata sede dell’emiro, ndr) e del rimanente dei quartieri, dissetansi con l’acqua dei pozzi delle proprie case… e le acque abbondanti che scaturiscono intorno a Palermo e scorrono da ponente a levante con forza da volgere ciascuna due macine».
Il viaggiatore arabo-andaluso Ibn-Ubayr che la visitò nel 1185 in pieno periodo normanno, racconta di giardini, torri di guardia e canali sull’agro palermitano, dimore regali immerse in rigogliosi giardini paradiso che coloravano la città e che re Ruggero definiva «sollazzi», e grandi fontane dalle quali zampillava acqua.
Descrizioni che oggi sembrano inventate, ma era tutto vero.
Il Parco del castello della Zisa da mille e una notte era circondato da viali, canali d’acqua e bacini collegati con reti di tubazioni di terracotta, i catusi, con acqua corrente a pressione o a caduta.
E la pianura agricola era attraversata dalle canalizzazioni irrigue reticolari di superficie chiamate saje.
