febbraio 2016
Visto il successo della precedente iniziativa, che ha visto migliaia di persone riversarsi nelle stazioni per attendere e per salutare con rispetto e con commozione il Treno del Milite Ignoto 2021, il Ministero della Difesa e la società FS hanno ritenuto opportuno far ripetere da FS e dal Genio Ferrovieri tale iniziativa seguendo il seguente itinerario (che interesserà gran parte delle regioni italiane comprese la Sardegna e la Sicilia):
Nel corso di una serie di conferenze organizzate in Veneto nel settembre 2021 Giacomo Galbusera, che già aveva scritto una tesina ( disponibile in fondo alla pagina) in merito all’acquedotto della Malga Busi, ha parlato degli acquedotti militari e l‘approvvigionamento idrico per le truppe sull’Altopiano di Asiago.
La Prima Guerra Mondiale fu il più grande conflitto armato della storia e coinvolse tutta l’Europa, oltre le colonie dell’Impero britannico, gli USA e l’Impero Giapponese e si svolse principalmente in territorio europeo tra l’estate del 1914 e la fine del 1918. Fu una guerra di posizione e nel caso specifico di trincea, ossia si combatteva metro per metro, passo per passo: le perdite in una sola battaglia erano altissime (tristemente famose sono la battaglia di Verdun e la battaglia della Somme). I soldati erano affogati nel fango, nella neve, nel ghiaccio o sabbia, protetti da sacchi imbottiti di sabbia o tavolacci di legno con metri di filo spinato e, per osservare le posizioni nemiche, erano costretti a sporgersi o a guardare in piccoli spioncini. Gli assalti poi erano terribili; nei primi metri venivano falcidiati centinaia di uomini da mitragliatrici e cannoni oltre che dall’utilizzo di armi chimiche.
Perchè scrivo questo articolo?
Il mio lavoro è stato ed è tuttora di altro tipo; mi occupo di gestione della risorsa idrica, della sua sostenibilità e soprattutto degli impatti che una carenza o un eccesso di acqua possono incidere sulla vita umana.
Forse è proprio per questo che ho cominciato, circa due anni fa, dopo una visita ad una mostra per celebrare il centenario della prima guerra mondiale, ad interessarmi come avveniva l’approvvigionamento idrico durante la Grande Guerra.
L’inizio della guerra
L’acqua, oltre alla consapevolezza di essere un elemento vitale per la nostra sopravvivenza, è sempre stata molto importante per l’umanità, sia come elemento di difesa e che di offesa.
Noti sono gli insediamenti palafitticoli dei primi insediamenti umani e i fossati a difesa dei castelli medievali o gli allagamenti provocati per impedire l’avanzata del nemico.
Considerando che la logistica ed i servizi di supporto hanno sempre influito in maniera determinate sull’andamento delle guerre e soprattutto sul morale dei combattenti, la non disponibilità di cibo o acqua o il rincalzo di truppe fresche per la sostituzione in prima linea di soldati stanchi o ammalati può veramente fare la differenza.
All’inizio della Grande Guerra un vero approvvigionamento idrico non venne predisposto perché si pensava che le risorse reperibili localmente fossero più che sufficienti per i soldati, per gli animali e per le armi. Infatti nei conflitti precedenti, molto più definiti a livello locale, di breve durata e con rapidi spostamenti, non era stato necessario predisporre un servizio in tal senso.
Invece, essendo soprattutto una guerra di mantenimento della posizione con un’enorme massa di uomini e di mezzi in movimento, in zone montagnose dove le poche sorgenti presenti venivano inquinate dai rifiuti e da scarichi di liquami, era necessario che fosse previsto un servizio di fornitura d’acqua potabile ai militari. Decisione presa rapidamente dopo le epidemie di tifo e di colera che si diffusero nelle Armate, soprattutto la seconda e la terza, nell’ottobre del 1915.
Considerando l’impossibilità di reperire in zona informazioni attendibili sulla salubrità delle acque si cominciò a trasportare acqua dagli acquedotti civili presenti nelle retrovie, utilizzando vagoni cisterna trasportati al fronte. Ma la vera sfida era portare l’acqua fino a dove occorreva superando le asperità del terreno tramite l’utilizzo di centrali di rinvio che la portavano alle prese d’acqua e ai serbatoi di distribuzione. Da quel punto l’acqua, per arrivare ai reparti, veniva portata, a seconda delle possibilità, con autobotti, carri, ghirbe o a spalla.
La ghirba era un otre di pelle usato in Africa che, durante la guerra in Libia nel 1911 e 1912 venne anche utilizzato dai soldati italiani per trasportare acqua, solo che risultò essere inadatta per i climi temperati, umidi che favorivano il proliferare di batteri patogeni nell’acqua. Tale sistema fu il migliore per portare acqua in quota sfruttando le sorgenti locali fino al maggio 1916.
Ma la controffensiva austriaca, prendendo come esempio l’altopiano di Asiago, di natura carsica, privò gli italiani della maggioranza delle sorgenti presenti nel territorio, costringendo l’approvvigionamento delle acque lontano anche 30 km dall’altopiano. Le strade, poi, di accesso ad Asiago erano due strette strade di montagna, le uniche percorribili per tutte le necessità, quindi congestionate dal traffico.
Non solo, come scrive nei suoi appunti il Generale Giovanni Battista Marieni, Comandante Generale del Genio Militare, a partire dal 1917, con il compito di riconvertire le linee di difesa a seguito della nuova situazione creatasi in conseguenza della disfatta di Caporetto, questo tipo di approvvigionamento non dava, militarmente parlando, buoni risultati. Le salmerie dovevano attraversare terreni continuamente battuti dalle artiglierie nemiche e venivano facilmente colpite con conseguente perdita di uomini e materiali. Perciò si cominciarono a costruire acquedotti in prima e seconda linea con un adeguato sistema di sollevamento fino a quote molte elevate.
Gli acquedotti e le infrastrutture di sostegno
L’approvvigionamento idrico serviva per il 60% per gli animali, per le costruzioni delle opere di difesa, per l’innaffiamento stradale (le strade non erano asfaltate) e per i bagni delle truppe. Ma serviva anche per il raffreddamento dei gruppi compressori, delle mitragliatrici e degli autoveicoli. Si calcolava che per il soldato servivano solo 9 l/giorno e in caso di ristrettezze 5 l/giorno. Gli acquedotti costruiti erano di tipo classico, ossia a pressione e a gravitazione e la rete di distribuzione era stata progettata e concepita in modo da distribuire in modo organico l’acqua, anche alle prime linee. I serbatoi di accumulo erano costruiti in caverne, ove possibile, e l’acqua scendeva per gravità in piccoli serbatoi in legno o altro di circa mezzo metro cubo posti, alle volte, direttamente nelle trincee.
Le pompe all’inizio erano a benzina, molto ingombranti per cui ben presto si dovette procedere all’elettrificazione di quasi tutti i motori delle centrali idriche sparse su tutto il fronte poiché, dopo il 1917, la fornitura di benzina e petrolio cominciava ad essere saltuaria. Vennero costruiti gli impianti elettrici lungo l’Isonzo con il collegamento alle linee delle società elettriche. A metà del 1917 tutte le centrali di testa, come il Carso, pianura di Cormons, Altopiano di Asiago erano elettrificate, nonostante la difficoltà di reperire trasformatori e motori, mantenendo come riserva quelli a benzina.
Una delle tante difficoltà tecniche da affrontare fu il sollevamento dell’acqua nelle regioni di alta montagna fino anche a 2000 e passa metri di altezza in pareti molto ripide, dove già era difficile il posizionamento dei tubi e quindi impossibile la costruzione di strade e il posizionamento di stazioni di rinforzo.
L’organizzazione: i Reparti Idrici
All’inizio della guerra non c’era un sistema definito di approvvigionamento idrico, ma a fronte delle necessità e delle problematiche che man mano si presentavano, il reperimento e la gestione delle acque vennero, come per altri servizi di sostegno, affidati al Genio Militare. All’inizio il personale specializzato era molto carente in quanto si reclutavano gli addetti da tutte le armi che, però, rimanendo effettivi ai corpi di provenienza, vi era il rischio di vedersi richiamare improvvisamente all’armata di origine. Con il tempo i cantieri idrici vennero costituiti in plotoni idrici nelle retrovie con personale fisso e preparato, fornito di tutti i supporti necessari sia logistici che di disciplina per svolgere al meglio il lavoro, ottenendo efficienza e sicurezza nel funzionamento delle centrali idriche necessarie per l’approvvigionamento regolare delle truppe. Facevano parte dei reparti idrici ingegneri idraulici, capotecnici e operai specializzati.
Presso ogni Comando di Armata venne istituito un Ufficio idrico con annesso un laboratorio di riparazione, un laboratorio chimico-batteriologico e un numero di Plotoni Idrici variabile da cui dipendevano i magazzini dei materiali.
Dopo la disfatta di Caporetto e la perdita ingente di materiale, la nomina del Generale Marieni portò a dei cambiamenti come la riorganizzazione degli uffici idrici, una migliore gestione delle analisi batteriologiche delle acque con la prevalenza della prevenzione, l’aumento di personale specializzato e formato. La nuova organizzazione consentì che in pochi mesi si riuscì a costruire 3 acquedotti con lunghezza variabile da 40 km a 180 chilometri con decine di centrali di sollevamento.
Nel contempo, memori dei problemi logistici scaturiti dalla disfatta di Caporetto, si cercò di regolamentare la procedura nel caso di ritirata del salvataggio delle apparecchiature del servizio idrico. In effetti nel giugno 1918, durante un’offensiva del nemico, non mancò mai l’acqua alle truppe nonostante la distruzione quasi completa delle tubature.
Lo stesso principio venne applicato nella progettazione della logistica quando si avanzò rapidamente nell’ottobre 1918. Consapevoli che gli austriaci avrebbero distrutto anche gli acquedotti civili ed inquinato le sorgenti e i pozzi, si riattarono con metodi di fortuna i servizi idrici delle grandi città e dei piccoli centri. Tale operazione proseguì anche dopo l’armistizio, nelle zone conquistate, devastate dai combattimenti, dove nonostante la smobilitazione dei reparti idrici, circa 50 ufficiali e 1500 specialisti riuscirono a ripristinare tutti gli acquedotti per un totale di 200 chilometri di tubazioni e 50 pozzi artesiani.
Acquedotti Militari esistenti
Ecco l’elenco, ovviamente non esaustivo, degli acquedotti esistenti, tratto dal Diario del Generale Giovanni Battista Marieni.
L’area, Valle Lagarina -Vallarsa – Val Pesina e Val d’Astico, era presidiata da enormi forze combattenti e sulle montagne non esisteva la quantità d’acqua necessaria: ciascuna di queste posizioni doveva essere fornita del suo impianto di sollevamento. Vi erano varie linee di impianti dalla prima alla seconda fino a quelle arretrate per le truppe a riposo.
Il ripiegamento della nostra linea di schieramento, dopo l’attacco austriaco della primavera 1916, causò la perdita delle ricche sorgenti della Renzola della conca di Asiago e di quelle di Covolo di Gallio, della Marcesina e di altre minori che sino allora avevano servito per il rifornimento dell’acqua alle truppe, mentre la richiesta d’acqua aumentò in modo impressionante. All’inizio si fece fronte con trasporto dal piano, dal acquedotto di Marostica, per mezzo di autobotti le quali dovevano percorrere circa 30 km di strada superando il dislivello di 1000 m ed impegnandovi in media 400 autocarri ogni giorno. Per risolvere il problema l’Ufficio Idrico della 6a Armata decise di alimentare l’intero altopiano ricorrendo a diversi acquedotti minori, che, in breve tempo, avrebbero assicurato l’acqua. Infatti soltanto nel territorio della 6a Armata furono costruiti, fra grandi e piccoli, ben 37 acquedotti; mentre altri 13 acquedotti furono impiantati sul territorio comune tra la 6a Armata e le Armate e limitrofe 1a e 4a.
I principali impianti
Su questa zona non vi era da fare alcun assegnamento sulle risorse locali, essendo la regione montuosa completamente priva d’acqua. Né vi era la possibilità di portare l’acqua con autobotti dalla pianura sottostante, dato il dislivello di 1500 metri e considerato che sino al giugno 1918 esisteva una sola via camionabile. Nemmeno le teleferiche, che mano a mano venivano messe in esercizio, avrebbero potuto trasportare le ingenti quantità d’acqua necessarie. Però se il massiccio del Grappa nelle sue rapidissime pareti meridionali è privo d’acqua, questa abbonda invece nella zona pedemontana: qui pertanto vennero costruite le numerose centrali o stazioni di sollevamento. Nella zona del Grappa vennero costruite cinque centrali o stazioni di testa: Ferronati con potenza di 75 Hp, Borso di 60 Hp, Covolo di 90, San Liberale di 120 e Caniezza di 90; quattro stazioni di rinvio: Santa Felicita di 150 Hp, Capitello di 30, Osteria del Campo di 20 e Col di Rondoli di 60 Hp. Lo sviluppo delle condutture superò i 90 km.
Non appena la 3a Armata si schierò dal Montello al mare, la Direzione Idrica del Comando Generale del Genio doveva occuparsi della dotazione idrica dell’area. Si ricorse pertanto colla massima sollecitudine all’impianto di ben otto reti di condutture per un complessivo sviluppo di 86.500 m, con cui fu distribuito 1 milione di litri di acqua potabile al giorno.
I dati e le notizie inserite nell’articolo fanno a capo a poche fonti bibliografiche, come il diario del generale Marieni cortesemente inviato dalla famiglia, i Bollettini dell’Istituto Storico dell’Arma del Genio dove scrisse l’ing. Gino Veronese, i volumi editi dal Ministero della Guerra e poco altro gentilmente fornitemi da Cime e Trincee e Guerra Bianca, siti amatoriali sulla Grande Guerra. Ciò nonostante traspare comunque dalla storia l’abnegazione, il sacrificio ed il senso del dovere di questi soldati e ufficiali che da agricoltori con la zappa, si sono trasformati in specialisti nella posa di tubi, di gestione dei serbatoi, delle pompe, senza alcuna informazione almeno all’inizio della guerra.
Dall’altro lato la guerra ha portato, riferendosi anche solo alla tecnologia dell’approvvigionamento idrico, un balzo in avanti notevole soprattutto per il tipo di materiali utilizzati, per lo studio sulle pompe e sulle infrastrutture utilizzate. Gli studi professionali, come la società Giordana e Garello di Torino, quello dell’Ing. Ballerio di Milano, ed infine la Franchi Gregorini di Dalmine, tra tanti altri, hanno sicuramente contribuito a fare in modo che le truppe avessero, sempre, acque fresche e pulite e combattessero con un animo un filo più rasserenato.
Per sottolineare, infine, il lavoro del Genio Militare per portare acqua ai soldati, basti pensare che su tutto il fronte italiano esistevano 150 centrali di sollevamento con 1.500 km di tubi, e che il Comandante delle truppe britanniche in Italia Generale Frederick Lambart, X conte di Cavan, ebbe a dire: ” che la vittoria dell’Italia si deve anche all’ Arma del Genio”.
Per approfondire si segnalano alcuni tra le migliaia di siti esistenti sulla prima guerra mondiale, sottolineando che quasi nessuno parla di servizio idrico.
http://www.centenario1914-1918.it/it
http://www.trentinograndeguerra.it/
http://www.grandeguerra.rai.it/
http://www.venetograndeguerra.it
http://www.lagrandeguerra.net/
http://www.albodorograndeguerra.it/
Uno studente Giacomo Galbusera dell’Istituto Tecnico De Pretto di Schio ha prodotto per gli esami finali dell’anno scolastico 2016-2017 un’ interessante tesina sull’acquedotto militare di Malga Busi sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista ingegneristico. La tesina in formato PDF è scaricabile qui
di Cristina Arduini ©
Il “Bepi” aveva freddo in quell’aprile del 1917, rintanato nella caverna in attesa di ritornare in trincea, sperando che il vento gelido che sferzava la cima del Pasubio finisse. Dopo un inverno con tanta neve che a sua memoria non ricordava di aver mai visto, era contento di essere ancora vivo e non, come molti suoi compagni travolti da valanghe e slavine. Sentiva, a fondo caverna, il ragliare degli asini che volevano cibo ed acqua e pensava che a uno dei prossimi turni sarebbe toccato anche a lui aiutare a portare su le cisterne piene d’acqua. Per fortuna tra pochi giorni, come continuava a ripetere il comandante, sarebbe finito l’acquedotto che avrebbe portato l’acqua fin da loro. Ne era orgoglioso, erano stati bravi i Genieri, aveva visto con quante difficoltà avevano combattuto! Ma almeno avrebbero potuto lavarsi, dar da bere alle bestie e soprattutto bere acqua fresca. Ad occhi chiusi rivedeva la fattoria della sua famiglia e vedeva la madre che andava al pozzo a prendere l’acqua e si immaginò alla fine della guerra a costruire un piccolo acquedotto per alleviare le fatiche della mamma.Ci sarebbe mai riuscito? Aveva seguito i lavori e aveva fatto tesoro di alcuni insegnamenti appresi quando si era offerto volontario per aiutare i Genieri. Sospirando si alzò sentendo il richiamo del sergente, prese il fucile ed andò a posizionarsi in trincea pregando che quella sera la guerra finisse.
Simpaticamente il sito cime e trincee ha voluto ripubblicare l’articolo.
Luigi Tatti (1808-1881) è stato un grande ingegnere comasco, che lavorò anche in Milano e che realizzò importanti opere ferroviarie e idrauliche come il Canale Cavour in Piemonte e il Canale Ledra – Tagliamento in Friuli. Possedeva una vastissima biblioteca di libri a tema e che è stata acquisita dal Sistema Bibliotecario Milanese. Tra questi è interessante parlare di un breve testo che riguarda il Lambro scritto a metà Ottocento. L’autore è sconosciuto, anche se nel sito della storia di Villasanta il testo viene attribuito a Antonio Cavagna Sangiuliani conte di Gualdana (1843-1913)storico vogherese molto attivo nelle iniziative culturali.
Il Lambro nel 1845
L’autore del testo coglie l’occasione dell’attivazione del consorzio per utenti sul fiume Lambro dai laghi di Pusiano e Alserio fino al confine della Provincia di Milano oltre Melegnano, comprensorio attivato con dispaccio della Luogotenenza Imperial Regia Lombarda; delinea, con brevi note, il percorso del fiume dai monti della Valsassina ( ora sappiamo che nasce a Piano Rancio nel comune di Magreglio) fino all’immissione nel Po, evidenziandone alcuni punti come il ponte della Malpensata oppure a Mojana dove prende il nome di Lambrone, causa regimazione effettuata dagli Austriaci prima dello scarico nel lago di Pusiano.
Vi è pure un continuo riferimento agli argini ben definiti dell’alveo, probabilmente dovuto alla particolare sensibilità del tempo sulle inondazioni e alluvioni di fiumi non regimati dall’uomo e sul fatto che, anche causa piene stagionali, il Lambro non è navigabile. Occorre sottolineare che la navigazione fluviale fino ai primi anni del Novecento era importante per il trasporto di merci e persone.
L’autore elenca con particolare cura le numerose chiuse, ricche di dettagli tecnici, lungo il percorso fino a Melegnano, soffermandosi sull’importanza della roggia Gallarana che si dirige verso il Parco di Monza. Le chiuse anche libere venivano utilizzate soprattutto dai mulini per grano, olio, molature di armi, filature di cotone, cartiere e produzione di legnami.
La più importante delle “levate”, però, è quella dell’Imperial Regia Polveriera di Lambrate, anche se nel testo si accenna solamente alla sua ubicazione ed importanza.
Una larga parte del testo riguarda la cronistoria del lago di Pusiano e dei vari passaggi di proprietà tra notabili, arcivescovi, regnanti fino alla diatriba tra l’avvocato Diotti e i vari proprietari succedetesi negli anni. L’avvocato Luigi Diotti era il promotore e finanziatore del famoso Cavo Diotti, utile per l’irrigazione agricola e regolatore allo sbocco della Valle del Lambro, necessario per mantenere un buon livello di portata del fiume anche in periodi di magra.
Il Cavo Diotti
Il canale venne progettato dall’ingegnere Paolo Ripamonti che realizzò una diga per governare i 12.705 metri cubi di acque del lago di Pusiano. Nel 1799 una piena rovinosa aveva bloccato per settimane le comunicazioni tra Como e Lecco. A chiederlo erano anche le decine di proprietari di torchi e mulini che lavoravano sulle acque del Lambro. E poi i contadini: avevano bisogno di essere posti al riparo dalle acque di questo fiume, evitando piene d’inverno e la siccità d’estate. A tutti diede una risposta il Cavo Diotti, che a partire dal 1812 assicurò la protezione dalle piene e dalla siccità delle numerose manifatture che sfruttarono le acque del Lambro: l’opificio Galeazzo Viganò, a Ponte Albiate, il candeggio Frette e il cappellificio Cambiaghi a Monza; il filatoio Krumm a Realdino di Carate. Ma già negli anni Ottanta del secolo scorso il Cavo Diotti, mai restaurato in due secoli, smise di funzionare. Nel 2002 l’alluvione di Monza dimostrò l’utilità strategica della piccola diga.
Dal 2016 è nuovamente funzionante , come da articolo del Corriere
L’autore, infine, evidenzia che, vista l’importanza strategica del fiume Lambro, era sempre sotto tutela pubblica e conclude il suo scritto con una dettagliata descrizione delle due grida, che regolamentavano l’utilizzo delle acque, del 26 luglio 1756 e del 20 dicembre 1782 valide anche a metà Ottocento e che potrebbero tranquillamente valere tuttora.
Mossa dallo stesso tipo di curiosità che ha mosso l’autrice, Piera Fossati, del volume ” La Polveriera, storie di acque e polveri nel territorio dell’Ortica” dove racconta la storia dell’Ortica, quartiere milanese, usando come traccia nei secoli il fiume Lambro, ho approfondito la storia della Polveriera di Lambrate. Una realtà ora completamente dimenticata, ma per centinaia di anni protagonista dell’area a ridosso del Lambro.
All’inizio tra Crescenzago e Cascina Monlué nell’est milanese, il medio Lambro era molto tortuoso, insinuato tra paludi e boschi infestati di animali di vario genere, caratterizzando il paesaggio con le acque non ancora incanalate e con gli acquitrini alimentati dalle risorgive. Le bonifiche cominciarono nei secoli XI- XIII cambiando in modo profondo il territorio, considerato insalubre, instaurando un approccio orientato all’utilizzo del terreno per l’agricoltura.
Il bacino del Lambro è un bacino idrico complesso che , tra l’altro, attraversa la cosiddetta fascia dei fontanili, ambienti semi-artificiali, ed è ricco di rogge tra cui la Roggia Molinara, che azionava il Mulino della Paglia e che entrava nel Lambro prima dei mulini della Polveriera, dove il fiume si divideva in due rami: il Lambro Vecchio e il Lambretto.
Il fiume, come descritto in una relazione del 1782, scorreva in piano e solo con le chiuse era in pendenza, creando accumuli di ghiaia che era necessario spurgare con grande attenzione per evitare di cambiare la capienza del corso d’acqua, importante per le concessioni di utilizzo.
La Polveriera, poi, e le sue infrastrutture, i due mulini della polvere, comparvero già negli ultimi anni del Cinquecento e rimasero in funzione fino alla metà dell’Ottocento. Erano posizionati nella zona tra Cavriano e Lambrate inferiore e precisamente sull’isola formata dal fiume.
Come si legge negli archivi era considerata dagli abitanti una presenza scomoda sia per ovvi motivi di sicurezza come esplosioni ed incendi, sia per controversie legate all’uso delle acque in quanto la fabbrica aveva diritto di prelazione, essendo considerata strategica dalle autorità preposte.
Riassumendo brevemente la storia in elenco non esaustivo:
L’ultimo baluardo degli edifici della polveriera venne demolito nel 1937, sanando di fatto una situazione di conflitto tra popolazione residente e la scomoda presenza di una fabbrica di polveri con relativi privilegi.
Bibliografia:
dicembre 2019 e febbraio 2022
Certo che salire a piedi tutti i giorni in cima al tiburio e poi sulla gran Guglia in costruzione per 4 anni di fila, con qualsiasi tempo, dai 69 anni in poi, dà già l’idea che uomo fosse Francesco Croce, architetto attivo a Milano nel 1700. Numerose costruzioni sono state da lui progettate, ma pochissimi conoscono il suo nome, sparito nella polvere della storia, nonostante sia stato il progettista della Gran Guglia del Duomo, monumento che l’intero mondo ci invidia e che sorregge la Madonnina, simbolo della città da secoli. Incuriosita da un articolo letto in rete, che raccontava un aspetto della storia del Duomo, appunto perso nel tempo, ho approfondito il tema, scoprendo un mondo di misteri, di intrighi e soprattutto di confronti accesi tra i vari personaggi, abitanti a Milano nel periodo della costruzione della Gran Guglia.
In genere i miei articoli sono di estrazione tecnica, quindi, anche in questo caso, la mia ricerca ha considerato la storia nel contesto dell’interazione da sempre esistente nel nostro territorio tra gli insediamenti umani e l’acqua sotterranea. E delle problematiche connesse che nel corso dei secoli si sono evidenziate e,almeno in qualche modo ed in qualche caso, risolte.
È abbastanza certo che Milano fu fondata dagli Insubri nel VI secolo A.C. e che il posto scelto, appena sopraelevato rispetto al resto del territorio paludoso, fosse dovuto alla sua centralità topografica, rispetto alla rete di comunicazioni fluvio-terrestri. Ponendo quindi Milano al centro delle strade che collegavano la Pianura Padana con il nord Europa, perché, sorprendentemente, come è suggerito da studiosi della materia, Milano ha gravitato verso l’area continentale nordeuropea più che verso l’area mediterranea da cui rimase appartata per secoli.
Un villaggio all’inizio contornato da paludi e senza corsi d’acqua che, con il tempo, ed attraverso imponenti bonifiche e fiumi deviati, ha portato l’acqua in città. Lavori già probabilmente effettuati dai primi abitatori, anche se i primi riscontri oggettivi li abbiamo soprattutto dell’epoca imperiale romana del II-III secolo D.C., quando nell’attuale corso Vittorio Emanuele passava un canale deviato dal Seveso o dall’Acqualunga, grosso fontanile sorgente tra Precotto e Gorla, con numerosi ponti e la cui acqua alimentava probabilmente le Terme Erculee, distrutte dal Barbarossa stesso quando rase al suolo Milano nel XII secolo.
Una città che, almeno all’inizio, era poco importante nel contesto dell’Impero Romano, anche se fu oggetto, già in periodo repubblicano, di imponenti opere di bonifica, i cui canali di deflusso servivano sia per il funzionamento che per la difesa della città.
E’, perciò, estremamente difficile ricostruire come effettivamente era il territorio milanese, di cui si sa che era estremamente fertile e il cui sistema irriguo, cosi interconnesso e capillare ha svolto e svolge tuttora, anche se più in sordina, un ruolo fondamentale nell’evoluzione della città, dell’area circostante ed anche al di la delle Alpi. È famoso, infatti, in tutto il mondo il sistema irriguo milanese, studiato ed apprezzato per la sua singolarità.
Se si guarda con attenzione il paesaggio lombardo, non vediamo nella zona di Milano i caratteristici archi degli acquedotti romani, che invece troviamo sparsi in tutto il mondo. I Romani, grandissimi ingegneri idraulici, sapevano perfettamente che Milano non ne aveva bisogno.
La particolare ricchezza di acque sotterranee sotto pochissimi metri dal suolo grazie alla sua conformazione, che permette la risalita delle stesse, e le acque superficiali deviate in canali hanno consentito sia un fiorire di pozzi “personali”, privati, sia un drenaggio costante delle acque dal terreno, soprattutto nella parte sud della città. In uno scavo archeologico in piazza Missori si sono contati fino a quindici manufatti per prelievo di acque.
Un contributo, forse non decisivo, ma importante, è stato che la Pianura Padana è naturalmente in leggera pendenza da Nord-ovest a Sud Est permettendo cosi un defluire dell’acqua verso la parte bassa della città senza grossi interventi degli abitanti. Un’ acqua che viene utilizzata per vari scopi sia per le terme sia per la difesa dell’abitato che per lo smaltimento di rifiuti suffragato anche da prove certe della presenza, sempre in epoca romana, di un sistema di condutture sia per l’acquedotto pubblico che per la fognatura.
Un ulteriore conferma della presenza di abbondante acqua sotterranea è infatti documentata dalla presenza di palificazioni e di drenaggi di anfore al di sotto delle costruzioni soprattutto nella parte sud (zona chiesa di San Lorenzo e Arena).,come si evince dal disegno sottostante (per gentile concessione di Gabriele Pagani tratto da “Milano e i suoi borghi”)
Non si ha documentazione precisa di come era la città celtica e poi romana ma le figure sottostanti ricostruiscono le probabili mappe del territorio di allora.
Tale sistema è ben documentato sia da studi archeologici, sia dal celeberrimo Bonvesin della Riva che nel XII secolo cantava le lodi di Milano nella sua cronaca “ De magnalibus urbis Mediolani “.
Dopo le invasioni barbariche e la fine dell’Impero Romano, vi fu un lungo periodo di decadenza che arriva alla fine del Medioevo, dove si lasciò senza manutenzione il sistema drenante e le fognature milanesi. Gli interventi successivi furono effettuati senza una pianificazione generale, a seconda della necessità. Rimaneva la presenza in contemporanea sia dei pozzi privati ad uso potabile che i pozzi neri e le fognature servivano solo per drenare le acque. Questo metodo cominciò a creare notevoli problemi di salute causa infiltrazioni nel terreno dei liquami.
Tale metodo di gestione delle acque è proseguito fin quasi alla fine del XIX secolo quando la costruzione sia dell’acquedotto che delle fognature cittadine ha risolto i succitati gravi problemi sanitari che si erano mostrati anche causa il crescere della popolazione.
Una città d’acqua che porta e gestisce l’acqua e che galleggia sull’acqua, cosi era Milano allora e tale è rimasta per secoli. Va infatti sottolineato che solo l’Olona venne deviato più di una volta nel corso dei secoli; in ultimo dagli Spagnoli per costruire la Darsena.
Quindi Milano ricca d’acqua sia sopra che sotto ed è un aspetto che deve essere considerato sempre quando si interviene nell’area milanese.
Quando nel 1386, dopo l’abbattimento delle due chiese esistenti, si cominciò a costruire il Duomo, decisamente diverso da come è ora, l’acqua di falda era a pochissimi metri dal suolo, come risulta da numerosi racconti e manufatti ritrovati durante gli scavi archeologici.
I dati raccolti in modo continuativo dalla costruzione dell’acquedotto milanese alla fine del 1800, rispecchiano ciò che è stata la situazione del rapporto acqua sotterranea e costruzioni nell’area milanese perlomeno fino agli anni 20 del secolo scorso, quando, dopo la costruzione delle centrali per l’acquedotto cittadino, i prelievi di acque sotterranea aumentarono sempre più, abbassandone il livello nel suolo.
Quindi immaginiamo l’area del futuro duomo, ricca di acqua sotterranea e di canali che passavano vicino alle case e alle chiese preesistenti. Anche se non viene quasi mai citato il problema della falda affiorante era probabilmente ben conosciuto da tutti gli addetti ai lavori, specialmente gli ingegneri e gli architetti.
La variazione dei livelli di acqua sotterranea nella città di Milano
E ritorniamo al Duomo, dove, al momento di posizionare le fondamenta su un terreno di ghiaia e sabbia con tracce di limo e strati di limo sabbioso e argilla, si posizionarono dei plinti che erano diversamente caricati causa appunto la presenza della falda, e di cui ora, dopo recenti studi effettuati negli anni 60 del secolo scorso da Ferrari da Passano, conosciamo esattamente le problematiche In effetti nessuno nel secolo XIV poteva mai pensare che avremmo avuto degli abbassamenti della falda per cause imputabili unicamente all’attività umana. Si dava per scontato che fosse stabile, ma non lo era. Questo ha innescato una serie di situazioni, alcune fortemente problematiche, che sono tuttora sotto osservazione. In sintesi, il Duomo e la falda sono sorvegliati speciali.
Tra alti e bassi la costruzione del Duomo, come riportato dagli Annali della Veneranda Fabbrica, continuò per secoli, tanto che a Milano esiste un modo dire “lungo come la fabbrica del Duomo” quando si parla di un lavoro interminabile.
Anonimo – Duomo in costruzione XVI secolo – Civico Museo di Milano
Nel XVIII secolo il Duomo era ancora quasi privo di guglie e in continuo stato di lavorazioni riprese, interrotte e mai completate, ma finalmente si cominciò seriamente a parlare di costruire la Gran Guglia, già pensata una manciata di secoli prima. L’8 luglio 1762, dal Capitolo della Veneranda l’architetto Croce ricevette l’incarico di cercare i vecchi modelli in legno, e di predisporre un nuovo progetto. E, come racconta Ambrogio Nava nella sua relazione sui restauri alla Gran Guglia intrapresi nel 1845, due anni dopo, il 23 maggio 1764, Croce presentò un modello in legno ed una relazione.
Come si riassume brevemente nel libro di Marco Castelli, Francesco Croce nasce a Milano nel 1696 da un artigiano idraulico e nonostante l’ammissione a agrimensore presso un ingegnere collegiato non ebbe mai ufficialmente la qualifica di ingegnere causa le leggi sul censo di allora. Nonostante ciò, progettò opere di ingegneria e architettura a Milano e altrove. Il porticato della Rotonda della Besana e la facciata del palazzo Sormani sono degli esempi. Nell’ultima parte della sua vita venne assunto come architetto del Duomo e collaborò con l’architetto Merlo e altri fino a che venne incaricato di progettare la Gran Guglia. Sovraintese alla sua costruzione ma non vide la Madonnina sulla cima della sua opera perché mori nel 1773.
Un progetto che era piuttosto ardito e ben consapevole delle problematiche connesse alla stabilità del Duomo, per cui, l’architetto Croce ideò “un ingegnoso sistema di costruzione della sua Guglia, e ciò solo basterebbe a mostrarlo uomo di arditissimo ingegno e di vaste cognizioni, sebbene non sapesse vestire i suoi concetti di frasi ampollose”, come scrive Ambrogio Nava nella sua relazione, dove inserisce nelle appendici il testo della relazione scritta direttamente da Croce, oltre ai commenti dei contemporanei.
Relazione molto stringata e chiara dove sintetizza i punti chiave della sua scelta, che vanno dal mantenimento della sicurezza dell’intera struttura fino alla proporzione e simmetria con il resto della costruzione. Non ultimo che la Gran Guglia doveva rispondere alla magnificenza e alla convenienza dell’ornatissima Fabbrica di cui debba essere l’ultimo finimento”. Magistralmente riesce a unire la leggerezza, la delicatezza della guglia che sostiene la statua della Madonnina con la tenuta dell’intera struttura. “E’ un sistema di ferri di varie dimensioni, bilanciato da forze concentriche verticali, mascherato e mantenuto da un rivestimento di marmo, che ne compone la forma esteriore” come lo definisce Ambrogio Nava, primo restauratore della Gran Guglia nel 1845 in senso rigorosamente conservativo.
Mentre l’arch. Ferrari da Passano nel 1962 la definisce una torre prismatica ottaedrica tutta traforata con un’anima cilindrica cava in marmo ed all’interno una scala a spirale che sale nell’anima cilindrica, una progettazione moderna di cui il Croce era pienamente consapevole.
Nella relazione di Croce ci sono due “chicche” di cui non si trova cenno o approfondimenti nelle ricerche compiute. La prima, è che nel decreto del Capitolo per indicazioni sul progetto della Gran Guglia si ordina di visitare ed effettuare un paragone con la guglia dell’Abbazia di Chiaravalle prima di cominciare a stendere il progetto. Cosa che il Croce fa puntualmente mettendo in evidenza le differenze tra l’Abbazia ed il Duomo; la seconda che si firma come Francesco Croce Architetto dell’Ammiranda Fabbrica, aggettivo dato al posto della Veneranda, come si usa ora.
Considerata la complessità del progetto e i dubbi sollevati da un anonimo, poi scoperto essere Paolo Frisi, matematico barnabita, spalleggiato dai fratelli Verri che, nel loro carteggio, definiscono il progetto di Croce “una deformità davvero ridicola” vennero contattati insigni esperti, come il Boscovich, gesuita, ed altri per l’approvazione della proposta dell’architetto Croce.
Sul sito del Corpus dei disegni di architettura del Duomo di Milano è disponibile ora il disegno, effettuato da altri del progetto della Gran Guglia. Il disegno è composto su sei fogli incollati in verticale ed è montato su tela. Il disegno mostra preparazione a matita ed esecuzione a penna e inchiostro nero, ma le ombre e il chiaroscuro sono realizzati con il carboncino, anziché mediante il tradizionale mezzo dell’acquerello, mentre le ombre delle sole figure sono arricchite da tratteggio a punta di penna con inchiostro nero. Le figure sopra il primo livello della guglia, alla base della cuspide e la Vergine alla sommità sono tracciate invece a penna e inchiostro bruno, inoltre, a penna e inchiostro rosso sono delineate le chiavi metalliche illustrate nella pianta.
Il disegno e i due a esso contestuali sono, allo stato attuale degli studi, le sole testimonianze grafiche sopravvissute che documentino il progetto di Francesco Croce per la guglia maggiore del Duomo, iniziata nel 1765 e terminata nel 1770, e il completamento delle guglie sopra il tiburio. Questo disegno in particolare rappresenta il prospetto, completo degli elementi decorativi e di parte della statuaria, e la pianta, comprensiva dell’indicazione degli elementi strutturali metallici e della scala interna, oltre a un dettaglio della scala che permette di raggiungere la quota sopra il cupolino, come indicato nella legenda. La lunga iscrizione racconta le fasi cronologiche di costruzione e puntualizza gli aspetti dimensionali legati all’altezza degli elementi e al peso dei marmi impiegati.
Viste le diatribe sollevate dal progetto, a questo punto vale una digressione per far capire il contesto e fornire le basi per capire l’oblio di Francesco Croce.
Come succede sempre, i gusti cambiano e verso la metà del XVIII secolo lo stile barocco non piaceva più, nasce un movimento Illuminista, che mette la ragione e la scienza al centro dell’essere uomo e dove la religione non è più il fulcro della vita. Insieme al movimento Illuminista, si afferma il gusto neoclassico, nato come reazione al barocco e il nuovo stile, è caratterizzato all’inizio da forme più semplici e lineari che si richiamano al Rinascimento, poi da forme più maestose e imponenti che rinviano a Roma e all’antica Grecia. Stile riconoscibile soprattutto in architettura con Giuseppe Piermarini, architetto umbro ben introdotto nella Milano del Settecento.Questo clima è stato incentivato dalle riforme volute dall’imperatrice Maria Teresa e dal suo successore sui rapporti Chiesa Stato. Le riforme, riguardanti aspetti molto importanti della vita milanese come l’accorpamento di ordini religiosi, il rinnovamento dell’ordine degli Architetti e Ingegneri, sino ad allora autoreferenziale, e l’istituzione, al posto del Collegio dei Gesuiti, dell’Accademia delle Belle Arti a Brera, dove si formeranno i futuri artisti, togliendo l’egemonia alla chiesa milanese durata secoli, vennero appoggiate dagli stessi intellettuali milanesi come Verri, Parini, Frisi ed altri. Nonostante da tutti il Duomo venisse considerato come una cosa a sé stante, di fatto si apri una “lotta” tra la Chiesa, ancora sostenitore del barocco e lo Stato Asburgico che appoggiava il gusto neoclassico, meno costoso. Francesco Croce sia per questioni anagrafiche che per cultura era l’ultimo degli architetti del tardo barocco e quindi nella progettazione della Gran Guglia applica questo principio. Forse è per questo che già nelle critiche effettuate alla presentazione del progetto il suo nome viene, forse volutamente, omesso. Omissione che perdurerà per molto tempo e tuttora il nome del progettista della meraviglia tecnica che sostiene la Madonnina gira solo tra gli addetti a lavori.
Finalmente l’8 luglio 1765 il Capitolo della Veneranda Fabbrica del Duomo deliberava di fare innalzare la guglia maggiore, sopra il tiburio eretto alla fine del Quattrocento. Poi, come previsto da tempo, probabilmente dall’inizio della costruzione, venne posizionata la statua della Madonnina, alta circa 4 metri, in rame ricoperta di foglie d’oro, opera di Giuseppe Perego e Giuseppe Bini il 30 dicembre 1774, un anno dopo la morte di Croce, senza alcuna cerimonia, come si rileva dalle rubriche del Maestro delle Sacre Cerimonie della cattedrale, disponibile in Archivio Capitolare.
In meno di quattro anni la Guglia venne ultimata, perché venne utilizzata la tecnica della divisione del lavoro in settori affidandoli ad artigiani diversi, anche se, purtroppo, non venne seguito alla lettera il progetto originale, come evidenzia nella sua relazione Ambrogio Nava settanta anni dopo, quando si intervenne per il restauro e non l’abbattimento come inizialmente si voleva fare, dato il grave ammaloramento della struttura. Va sottolineato anche il fatto che dovettero essere risolti numerosi problemi perché un cantiere a 65 m di altezza ha bisogno di una complessa organizzazione.
Per sottolineare ancora una volta la genialità di Francesco Croce il progetto, probabilmente senza volerlo, anticipò i principi della tecnica moderna del cemento armato in quanto era prevista la guglia in marmo con un’intelaiatura in ferro, molto leggera che pesava solo 4700 kg circa.
Il Duomo è finalmente concluso, ma inizia la manutenzione del monumento, anche se sicuramente non con l’attenzione odierna, frutto di centinaia di anni di esperienza in merito. Solo riguardo alla Gran Guglia, citando i più importanti, il primo restauro, dopo decenni di abbandono, in senso rigorosamente conservativo venne gestito da Ambrogio Nava nel 1845, che ha avuto il grande merito di evitarne l’abbattimento, invece caldeggiato dall’architetto della Fabbrica Pestagalli. Nel 1962 i collegamenti originali in ferro vengono sostituiti da elementi in acciaio inossidabile particolare denominato AISI 316 grazie a Carlo Ferrari da Passano. Ora invece i nuovi elementi metallici sono realizzati in titanio e vengono consolidati o sostituiti gli elementi in marmo.
Come anticipato all’inizio di questa storia Milano è estremamente ricca di acqua sotterranea che da sempre incide sulle scelte della città stessa. Anche il Duomo, costruito in un’epoca in cui l’acqua era a pochi metri dal suolo e tale è rimasta per centinaia di anni ha avuto le sue difficoltà, ovviamente generate dall’attività umana.
Costruito pensando che l’acqua sarebbe stata sempre allo stesso livello, le fondazioni della facciata e di parte delle murature laterali sono state appoggiate su pali, mentre i piloni del tiburio sono stati costruiti su plinti sopra uno strato di argilla e calce direttamente consolidato e gettato in acqua.
Con il tempo, principalmente l’aumento dei prelievi d’acqua sotterranea causa la costruzione dell’acquedotto milanese alla fine dell’Ottocento, in misura minore la presenza di una centrale termoelettrica a pochi passi, le vibrazioni del traffico veicolare e la presenza di errori di staticità si sono presentati notevoli episodi di subsidenza. Già a partire dagli anni 20 i prelievi erano aumentati per l’aumentare della popolazione e di conseguenza del consumo d’acqua potabile e la falda si era abbassata di poco. I prelievi pubblici aumentarono sempre più passando da circa 108 milioni di mc del 1930 ai 352 milioni del 1971. Per fortuna attualmente la quantità di acqua sollevata dai pozzi si è notevolmente ridotta attestandosi sui 218 milioni di mc/annui.
I dati relativi ai prelievi dei pozzi privati allora esistenti non sono conosciuti, ma si sa che erano numerosi ed estremamente attivi per la presenza di numerose industrie idro esigenti nel territorio milanese.
L’acqua fino a circa gli anni 50 del secolo scorso si trovava poco al di sotto dei plinti di fondazione, circa a meno 7 metri, mentre la Fabbrica del Duomo, all’inizio degli anni 60, come racconta Ferrari da Passano nel suo intervento al convegno della Società di Geotecnica Italiana nell’ottobre 1980, si è trovata a rilevare lesioni nelle colonne del tiburio e cominciare a pensare seriamente che l’intera struttura potesse crollare.
Però da parte dei tecnici non era ancora stato messo in correlazione il problema delle lesioni del Duomo con il fenomeno l’abbassamento della falda, nonostante il livello di quest’ultima si era abbassato di 25 metri in vent’anni, mentre attualmente si attesta sui 16-17 metri di profondità.
La situazione venne studiata a fondo con l’istituzione di una Commissione prefettizia tuttora operativa, partecipanti tutte le istituzioni milanesi e la mattina dell’8 settembre 1972 su ordinanza del Sindaco di Milano, Aldo Aniasi, piazza Duomo venne chiusa definitivamente al traffico veicolare, rallentata la linea 1 della metropolitana, e immediata chiusura dei pozzi privati circostanti. Questi gli interventi necessari per ridurre l’impatto sulla cattedrale. Dopo di che si cominciarono i lavori di restauro all’interno che durarono anni.
Da allora il Duomo è un sorvegliato speciale, insieme ovviamente alla falda, con reti di sensori e continui monitoraggi e restauri.
Partiti da un dimenticato, e si spera presto ricordato da tutti, architetto della Veneranda Fabbrica che ha progettato e realizzato la meraviglia che sostiene la statua della Madonnina, simbolo di Milano, siamo arrivati ai 250 anni, da festeggiare nel 2020, della conclusione della Gran Guglia del Duomo. Sarebbe l’occasione per il Comune di Milano e la Veneranda Fabbrica correre ai ripari e dare il giusto risalto all’opera di Francesco Croce, magari dedicandogli una via come chiedeva l’autrice del precedente articolo e l’autore del volume del 2009. O anche un convegno tecnico e un percorso tematico in città.
Milano magari dimentica ogni tanto ma ha sempre dato il giusto valore alle cose e riparerà al torto.
Del resto per oltre 600 anni il Duomo e la sua piazza hanno ospitato la storia della città, la passione dei suoi cittadini e la vita quotidiana di persone che hanno sempre rialzato la testa e rimboccate le maniche dopo le devastazioni e le distruzioni umane e naturali. Punto di riferimento per tutti fino dalle sue origini e dove generazioni di costruttori, di operai, di artigiani, speziali, orefici, notai e forestieri hanno aggiunto il loro tocco personale fino a farlo diventare la spettacolare struttura che è oggi, meta di pellegrinaggi e di curiosi turisti.
Bibliografia e sitografia
Ringrazio le persone che hanno scritto, amato e vissuto il Duomo e la città di Milano nei secoli passati, come Francesco Croce, Ambrogio Nava, e quelli che ora spendono il loro tempo come gli autori degli articoli sopracitati. Un particolare ringraziamento all’autrice del precedente articolo Manuela Sconti Carbone che ha dato l’avvio alla mia ricerca, a Marco Castelli per il suo libro su Croce, a Roberto Fighetti della Veneranda Fabbrica fondamentale nella ricerca di molti documenti, al personale della Biblioteca Archeologica e Numismatica per la competenza e la disponibilità, al personale della Cittadella degli Archivi del Comune di Milano per la infinita pazienza e disponibilità e agli amici che hanno lavorato e che lavorano in MM, società di gestione del servizio idrico integrato di Milano.
La Nebbia ed il Grande Fiume
I dintorni di San Rocco al Porto, un giorno qualsiasi dell’ottobre 1980 primo pomeriggio
Attori: due funzionari della Provincia di Milano, una donna ed un uomo
Motivo della trasferta: istituzionale per la verifica dello stato di inquinamento del fiume
La nebbia saliva dai prati, dalle rive del fiume molto velocemente e la donna guardava preoccupata l’avanzare di quella marea lattiginosa e compatta. La conosceva bene la nebbia e in tutte le sue declinazioni, e quella sembrava particolarmente densa. Sapeva che c’era da verificare solo un altro sito e poi sarebbe tornati verso Milano, a casa. Sollecitò il collega che si attardava sulla riva pasticciando con il fango. Improvvisamente si levò un forte odore, acre, di petrolio e tutti e due dissero la stessa cosa, l’inquinamento c’era ancora specialmente nelle lanche.
“Dai, andiamo la nebbia scende in fretta”. Salirono in auto e si diressero all’autostrada Piacenza – Milano così, pensavano, massimo mezz’ora quaranta minuti sarebbero stati a casa.
Ci arrivarono 11 ore dopo percorrendo la Statale 9, in quanto l’autostrada era chiusa per la catena di tamponamenti con morti e feriti. Incolonnati, senza potersi mai fermare, senza nessun genere di conforto tolto un sacchetto mezzo pieno di caramelle di liquirizia trovato rovistando tra i sedili e con la strada illuminata dalle torce accese dalla Polizia per segnalare i continui incidenti.
Edoardo Leoni era il funzionario “anziano”, mentre la sottoscritta, assunta nell’amministrazione provinciale da una manciata di mesi era la biologa che doveva verificare lo stato di inquinamento del Fiume. Con i mezzi tecnici e diagnostici di allora, molto artigianali rispetto ad ora.
La Provincia di Milano era territorialmente interessata perché il Lodigiano, allora, faceva parte dell’istituzione milanese oltre alla competenza istituzionale data dalla Legge 319/1976, la cosiddetta Legge Merli.
Approfondimento
Il 21 aprile 1980 l’oleodotto Genova – Lacchiarella, lungo 106 km, si ruppe all’altezza del comune Mezzana Rabattone sversando il petrolio, circa 600-800 tonnellate, nel torrente Terdoppio, prima dell’immissione nel fiume Po. L’oleodotto era di proprietà della Conoco, multinazionale del petrolio americana, che lo gestiva tramite una sua consociata, la Continental Oil Company italiana. A Lacchiarella era presente una vasta area adibita a deposito e a stoccaggio dei prodotti petroliferi.
La “marea nera” andava dal Ponte della Becca all’Isola Serafini e una ricognizione effettuata con elicottero dai vigili del fuoco di stanza a Modena accertava che il greggio si era distribuito lungo il corso del fiume in una sottile pellicola per un tratto di circa 75 chilometri. Il velo si presentava sotto forma di chiazze e filamenti legati con continuità tra loro e come una pellicola avanzando con una velocità di uno o due chilometri orari. La massa oleosa, durante il suo scorrimento verso La centrale elettrica di Isola Serafini, si frazionava, a causa degli ostacoli incontrati, in morchie superficiali; un 20 % di essa è comunque in parte evaporata ed in parte depositata lunga le sponde. La compagnia concessionaria dell’oleodotto provvedeva, sin dal primo giorno, ad allestire in provincia di Pavia mezzi per il disinquinamento delle sponde imbevute di greggio, mentre altre attrezzature venivano predisposte presso la centrale idroelettrica di Isola Serafini ( da interrogazioni parlamentari del maggio 1980).
Conclusioni
Non ho dimenticato, e mai lo farò, quelle ore in mezzo alla nebbia e il passaggio frequente che mi capita di fare sui ponti del Po me lo ricorda ogni volta, sapendo che il grande fiume non concede sconti a nessuno, ma affascina e pretende rispetto e devozione. Sono grata, poi, di non essere stata sola, ma in compagnia fortunatamente di una persona simpatica che ricordo con grande piacere. Però da quella volta ho preferito occuparmi, prevalentemente, di fontanili e acque sotterranee con un altro tipo di fascino ma sempre intriganti e piene di sorprese.
Si elencano qui i comunicati e le notizie che, a totale discrezione del responsabile del sito, vengono considerati interessanti.
Portale dati :https://data.ingv.it/
14 marzo 2021
L’area del Cratere di Castiglione, si trova alla periferia di Roma lungo un’antica strada romana: la via Prenestina. In questa area, oggi caratterizzata da un esteso campo coltivato, sorgeva un antico lago che occupava il cratere di un centro esplosivo alle pendici settentrionali del distretto vulcanico dei Colli Albani.
Questo antico lago può fornirci importanti informazioni sul clima del passato.
4 febbraio 2021
Antartide, online e in tempo reale i dati sul campo magnetico della Terra
Dalle variazioni nel tempo all’intensità: l’INGV pubblica in real-time i dati sul campo magnetico terrestre provenienti dalla stazione scientifica CONCORDIA, nel cuore dell’Antartide.
È online la sezione dedicata ai rilevamenti provenienti dalla base scientifica italo-francese CONCORDIA, in Antartide, nel portale dei dati geomagnetici dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). Con questo l’Istituto mette a disposizione della comunità scientifica e del pubblico una raccolta di dati in real-time delle variazioni temporali del campo magnetico terrestre. I dati, oltre a mostrare le variazioni nel tempo del campo magnetico della Terra, evidenziano anche la sua intensità, registrata minuto dopo minuto, nella sua evoluzione giornaliera, per tutti i giorni dell’anno.
La stazione scientifica CONCORDIA si trova in un’area sopraelevata del plateau antartico, a circa 1.200 chilometri dalla costa e a 3.200 metri di altezza su uno strato di ghiaccio permanente. Questa stazione fa parte del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA/IPEV), curata dall’ENEA con la programmazione scientifica del Comitato per la Ricerca Polare (CRP) costituito in seno al CNR.
Link al PORTALE INGV DEI DATI GEOMAGNETICI:
http://geomag.rm.ingv.it/
Antarctica, online and in real time data of the Earth’s magnetic field
Time variations, from the vector components to intensity: INGV publishes data of the Earth’s magnetic field in real-time from CONCORDIA, the scientific station in the heart of Antarctica
Recordings of the Earth’s magnetic field from Concordia, the Antarctic Italian-French scientific base are online in the geomagnetic data portal of the Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) making available to the scientific community and general public a collection of real-time data from this remote area of our planet. Data are shown as time plot of the vector components and intensity, recorded minute by minute, in its daily evolution, for every day of the year.
CONCORDIA is located in an elevated area of the Antarctic plateau, about 1,200 kilometers from the coast and 3,200 meters high on a permanent layered ice. This station is part of the Programma Nazionale delle Ricerche in Antartide (PNRA/IPEV), managed by ENEA under the scientific planning of the Polar Research Committee (CRP) within the Italian CNR.
Link to the INGV GEOMAGNETIC DATA PORTAL: http://geomag.rm.ingv.it/
18 dicembre 2020
Il veloce viaggio del Polo Nord magnetico verso la Siberia misurato con i satelliti europei Swarm
Con una velocità otto volte maggiore rispetto a quella del polo magnetico sud, il polo magnetico nord si muove verso la Siberia. Una nuova analisi effettuata per la prima volta sui dati prodotti dai satelliti Swarm dell’European Space Agency (ESA) attualmente in orbita, hanno confermato il trend che si era rilevato negli ultimi decenni. Nello studio appena pubblicato “The location of the Earth’s magnetic poles from circum-terrestrial observations“, tre ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) mostrano come dalle misure dirette del campo magnetico registrate dagli strumenti a bordo dei satelliti sia possibile determinare la posizione aggiornata dei poli magnetici e, analizzando i dati degli ultimi anni, anche la loro dinamica. “Importante è sottolineare”, conclude uno degli autori, “la profonda differenza tra poli magnetici e poli geografici: questi ultimi sono individuati dall’asse di rotazione terrestre e, dunque, sono fissi. I poli magnetici, invece, corrispondono ai punti in cui il campo magnetico è esattamente verticale e si muovono in maniera imprevedibile. Inoltre, i poli magnetici non sono diametralmente opposti come quelli geografici e non sono neanche vicini ad essi. Oggi il polo sud magnetico dista dal suo omologo geografico circa 2800 km, quello nord circa 350 km”. Il bizzarro comportamento dei poli magnetico ha stimolato la curiosità di alcuni esploratori negli ultimi due secoli, temerari fino a fronteggiare le difficili condizioni ambientali delle aree polari del nostro pianeta: le preziose misure raccolte nel corso del tempo hanno permesso di seguire le incredibili distanze coperte dai due poli magnetici, come manifestazione della lenta ma continua variazione spazio-temporale del campo magnetico in conseguenza dei complessi meccanismi che lo generano nel nucleo esterno del nostro pianeta.
The fast journey of the magnetic North Pole towards Siberia measured by the European Swarm satellites
With a speed eight times greater than the one of the south magnetic pole, the north magnetic pole is moving towards Siberia. A new analysis carried out for the first time on the data produced by the Swarm satellites of the European Space Agency (ESA) currently in orbit, confirmed the trend that had been observed in recent decades. In the study just published “The location of the Earth’s magnetic poles from circum-terrestrial observations“, three scientists of the Italian National Institute of Geophysics and Volcanology (INGV) show how from the direct measurements of the magnetic field recorded by the instruments on board the satellites it is possible to determine the updated position of the magnetic poles and, analyzing the data of recent years, also their dynamics. “It is important to underline“, concludes one scientist at INGV, “the profound difference between magnetic poles and geographical poles: the latter are identified by the Earth’s rotation axis and, therefore, are fixed. The magnetic poles, on the other hand, correspond to the points where the magnetic field is exactly vertical and move in an unpredictable way. Furthermore, the magnetic poles are not diametrically opposite as the geographic ones are and they are not even close to them. Today the south magnetic pole is about 2800 km from its geographical counterpart, the north one about 350 km”. The bizarre behavior of the magnetic poles has stimulated the curiosity of some explorers in the last two centuries, daring to face the difficult environmental conditions of the polar areas of our planet: the precious measurements collected over time have made it possible to follow the incredible distances covered by the two magnetic poles, as a manifestation of the slow but continuous space-time variation of the magnetic field as a consequence of the complex mechanisms that generate it in the outer core of our planet.
Figura 1 – Posizioni dei poli magnetici nord e sud rilevate da campagne di misura a terra nel corso di due secoli (punti blu) e da recenti rilievi della strumentazione a bordo dei satelliti Swarm (punti rossi). La posizione attuale (2019) dei poli è indicata da un punto rosso cerchiato.
Figure 1 – Positions of the north and south magnetic poles by ground surveys over two centuries (blue points) and by the latest observations from instrumentation on board of the Swarm satellites (red points). Current poles’ position (2019) is marked as a red-circled point.
10 dicembre 2020
New Space Economy, l’INGV partecipa alla nuova edizione dell’Expo-Forum Europeo
Con una seconda edizione interamente digitale, torna l’11 e 12 dicembre l’appuntamento internazionale con l’Expo-Forum Europeo sulla New Space Economy (NSE, https://www.nseexpoforum.com/) organizzato dalla Fondazione Amaldi e da Fiera Roma in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI).
Quest’anno la partecipazione dell’INGV alla NSE sarà coordinata dal nuovo Centro di Osservazioni Spaziali della Terra dell’Istituto (COS-INGV), nato con l’obiettivo di raccordare e pianificare le attività dell’Ente nel settore dello Spazio e dell’Aerospazio, nonché di favorire la partecipazione dei ricercatori alla generazione di servizi e prodotti per la società e per gli Enti esterni.
Anche quest’anno l’INGV presenterà al Forum le attività svolte in cinque settori strategici:
Galileo, che tramite dei dati di navigazione e posizionamento satellitare consente all’Istituto di fornire dati e servizi per scopi di geodesia, studio e monitoraggio del territorio, posizionamento di precisione e per la mitigazione degli effetti della meteorologia spaziale, in particolare per l’aviazione civile;
COPERNICUS, programma di Osservazione della Terra finanziato dalla Commissione Europea per generare prodotti usati per monitorare e conoscere meglio i fenomeni naturali del nostro Pianeta;
missioni satellitari, tra cui la missione spaziale iperspettrale ASI-PRISMA, per le quali l’INGV lavora allo sviluppo di sensori di prossima generazione per l’Osservazione della Terra;
supporto ai servizi e dati spaziali mediante lo sviluppo e il mantenimento di reti di monitoraggio su scala regionale, in Italia e nel Mediterraneo, e su scala globale in grado di fornire in tempo reale parametri e osservazioni geofisiche necessari per la validazione dei dati spaziali;
sviluppo di start-up e tecnologie innovative, come lo spin-off SpacEarth Technology, che, nel tempo, ha portato a vari brevetti nell’ambito delle applicazioni spaziali, mostrando le potenziali applicazioni nell’aviazione, nell’agricoltura di precisione, nella navigazione marittima e nelle telecomunicazioni.
Scarica qui i flyers divulgativi sulle attività dell’INGV: http://www.ingv.it/it/musei-e-mostre/mostre/expo-space-economy
Clicca qui per registrarti gratuitamente all’evento: https://www.nseexpoforum.com/
29 ottobre 2020
Il 18 gennaio 2017 una valanga nella località di Rigopiano in Abruzzo colpì rovinosamente un Resort-hotel. L’evento, che determinò la perdita di alcune persone, fu osservato solo da due testimoni che, fortunosamente, si trovavano all’esterno dell’edificio. Tanti sono gli interrogativi e le ipotesi che ruotano intorno a questa tragica vicenda. Uno studio multidisciplinare a cura dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), del Politecnico di Torino, del WSL Institute for Snow and Avalanche Research SLF di Davos (CH) e dell’Osservatorio di Geofisica dell’Università di Monaco (DE) ha cercato di fornire delle risposte sulle tempistiche e sulle dinamiche della valanga. La ricerca “Seismic signature of the deadly snow avalanche of January 18, 2017, at Rigopiano (Italy)”, appena pubblicata sulla rivista Scientific Reports, ha appurato che tutto è accaduto in poco meno di un minuto e mezzo. La valanga si è staccata dal Monte Siella alle ore 15:41:59 (orari UTC), nel suo percorso verso la valle è entrata in un canyon e all’incirca alle 15:43:20 ha colpito l’hotel di Rigopiano ad una velocità di circa 100 km orari. Per giungere a questo risultato così preciso, i ricercatori hanno prima analizzato la tempistica delle telefonate di soccorso così come riportate dalla cronaca giornalistica e poi valutato numerosi dati tra cui l’analisi della Rete Sismica Nazionale e la modellazione numerica della valanga, elaborati poi in studi ingegneristici e sismogrammi teorici ottenuti attraverso simulazioni. Questo lavoro così complesso e multidisciplinare evidenzia una nuova lettura della dinamica dell’evento suggerendo, tra l’altro, potenziali utilizzi non tradizionali di una rete di monitoraggio sismico. “Una prima ipotesi”, afferma Thomas Braun, uno degli autori della ricerca, “nata dall’osservazione di un segnale sismico sospetto, è stata quella che tale segnale fosse dato dall’impatto della valanga stessa con l’albergo. Un’analisi più approfondita ha rivelato, invece, l’esistenza di tre distinte fasi sismiche, che potevano sostenere una seconda l’ipotesi, quella che la valanga si fosse propagata verso valle in tre fasi consecutive. Per giungere a questi risultati come prima cosa abbiamo ristretto la finestra temporale in cui è avvenuta la valanga”, spiega Thomas Braun, “Per fare ciò ci siamo basati sulla cronologia e sul contenuto delle chiamate e dei messaggi di emergenza inviati dall’hotel. Alle 15:30 (orari UTC) è avvenuta l’ultima chiamata dalla struttura mentre alle 15:54 c’è stato un tentativo di invio di un messaggio WhatsApp di richiesta di aiuto da una persona rimasta bloccata dalla neve. Abbiamo dedotto che la valanga è avvenuta in questa finestra temporale di 24 minuti. Successivamente abbiamo cercato dei segnali sismici ipoteticamente generati dalla valanga. In quel periodo eravamo nel pieno della sequenza sismica dell’Italia centrale, con epicentri a circa 45 km a ovest di Rigopiano. Analizzando i segnali registrati dalle stazioni sismiche, abbiamo notato che la stazione GIGS posizionata sotto il Gran Sasso, aveva registrato un segnale anomalo nei 24 minuti identificati come finestra temporale del distacco della valanga. Di questo segnale”, prosegue il ricercatore, “abbiamo poi studiato il contenuto spettrale e la direzione di provenienza osservando così tre distinte fasi sismiche avvenute a distanza di pochi secondi. La domanda decisiva che nasce da tale osservazione è come una valanga, che si muove in superficie, possa trasmettere energia sismica nel sottosuolo. Sulla base della topografia del luogo, tenendo conto della tipologia, della temperatura e dell’umidità della neve, sono state eseguite centinaia di modellazioni numeriche per ricostruire il tragitto e la dinamica della valanga, che hanno fornito risposta al quesito: lungo la traiettoria della valanga esistono tre punti dove il “momento”, dato dal prodotto altezza per velocità della valanga, diventa massimale. Questi punti corrispondono al passaggio della valanga nel canyon, esattamente, all’entrata, e alle due successive deflessioni. Il lavoro appena pubblicato ha quindi permesso di sincronizzare le modellazioni con le osservazioni e di stimare i tempi dell’evento. “La ricostruzione dell’evento”, aggiunge Thomas Braun, “ha evidenziato che la valanga nella discesa verso valle ha percorso in tutto 2400 metri e ha travolto alberi e rocce, cambiando massa con incremento continuo del proprio peso specifico. Oggi sappiamo che la velocità con cui la valanga ha colpito l’albergo è stata di 28 metri al secondo, quasi 100 km orari. I ricercatori dell’Università di Monaco hanno calcolato dei sismogrammi teorici che – comparati con il segnale registrato alla stazione GIGS – trovano maggiore coerenza se si assume che il segnale sismico fosse stato generato durante il passaggio della valanga nel canyon. I ricercatori del Politecnico di Torino, invece, hanno studiato in dettaglio, dal punto di vista ingegneristico, l’impatto, il collasso e la dislocazione dell’edificio principale dell’hotel e, insieme con il WSL Institute for Snow and Avalanche Research SLF di Davos, hanno indagato sulla dinamica della valanga analizzando la topografia del pendio prima e dopo l’evento. “Attraverso le nostre analisi”, conclude il ricercatore, “è stato possibile determinare anche l’esatto orario in cui si è generata la valanga e quello in cui è stato colpito l’hotel. Applicando questa metodologia multidisciplinare, si può quindi immaginare un potenziale uso della rete di stazioni sismiche, appositamente configurata per i territori montani, per monitorare valanghe in luoghi remoti e impervi, utile per una più completa comprensione del fenomeno”.
On 18 January 2017, an avalanche in the municipality of Rigopiano in Abruzzo devastated a Resort-hotel. The event, which caused the loss of some people, was observed only by two witnesses who stayed fortunately outside the building. Many are the questions and hypotheses around this tragic event. A multidisciplinary study conducted by the National Institute of Geophysics and Volcanology, the Polytechnic University of Turin, the WSL Institute for Snow and Avalanche Research SLF in Davos (CH) and the Geophysical Observatory of the University of Munich (DE) tried to provide responses on the timing and on the dynamics of the avalanche. The research “Seismic signature of the deadly snow avalanche of January 18, 2017, at Rigopiano (Italy)“, just published in Scientific Reports, revealed that everything happened in less than one and a half minutes. The avalanche detached from Mt. Siella at 15:41:59 (UTC), on its way down to the valley entered a canyon and hit the hotel approximately at 15:43:20 at a speed of about 100 km per hour. To achieve such a precise result, the researchers first analysed the timing of the emergency calls as reported in the news and evaluated then numerous data, like the analysis of the National Seismic Network and the numerical modelling of the avalanche, subsequently elaborated in engineering studies and theoretical seismograms obtained through simulations. This complex and multidisciplinary work evidences a new interpretation concerning the dynamic of the event, suggesting, moreover, potential non-traditional use of a seismic monitoring network. “A first hypothesis”, affirms Thomas Braun, one of the authors of the research, “born from the observation of a suspicious seismic signal, was that this signal would have been generated by the impact of the avalanche with the hotel. An in-depth analysis revealed, however, the existence of three distinct seismic phases, which could support a second hypothesis, that the avalanche would have propagated in three consecutive phases. To achieve these results, we first restricted the time window in which the avalanche occurred”, explains Thomas Braun, “To do this, we relied on the chronology and contents of the calls and emergency messages sent from the hotel. At 3:30 pm (UTC time) the last call from the facility took place while at 3:54 pm there was an attempt to send a WhatsApp message requesting help from a person blocked by the snow. We deduced that the avalanche occurred in this 24-minute time window. We then looked for seismic signals hypothetically generated by the avalanche. In those days we were in the midst of the central Italy seismic sequence, with epicentres about 45 km west of Rigopiano. Analysing the signals recorded by the seismic stations, we noticed that station GIGS located under the Gran Sasso, had recorded an anomalous signal within the 24 minutes identified as the time window of the avalanche release. Concerning this signal”, continues the researcher, “we then studied its spectral content and the direction of origin, thus observing three distinct seismic phases which occurred a few seconds apart. The decisive question that arises from this observation is how an avalanche, moving on the surface, can transmit seismic energy in the subsoil. On the basis of the topography of the place, taking into account the type, temperature and humidity of the snow, hundreds of numerical modelling were carried out to reconstruct the path and dynamics of the avalanche, which provided an answer to the question: along the avalanche trajectory there are three points where the “moment” (given by the product of height by velocity of the avalanche) becomes maximum. These points correspond to the passage of the avalanche through the canyon, exactly, at the entrance, and the two subsequent deflections. The work just published has therefore made it possible to synchronize the modelling with the observations and to estimate the timing of the event. “The reconstruction of the event”, adds Thomas Braun, “showed that the avalanche on its descent into the valley covered a total of 2400 meters and swept over trees and rocks, changing mass with a continuous increase in its specific weight. Today we know that the speed with which the avalanche hit the hotel was 28 meters per second, almost 100 km per hour. The researchers of the University of Munich calculated theoretical seismograms which – compared with the signal recorded at station GIGS – are more coherent, when assuming that the seismic signal was generated during the passage through the canyon. The researchers of the Polytechnic University of Turin, however, supported the detailed study from an engineering point of view, focusing on the impact, collapse and displacement of the main building of the hotel and, together with the WSL Institute for Snow and Avalanche Research SLF of Davos, investigating the dynamics of the avalanche by comparing the topography of the slope before and after the event. “Through our analyses”, concludes the researcher, “it was also possible to determine the exact moment when the avalanche was generated and when the hotel was hit. By applying this multidisciplinary methodology it is possible to imagine a potential use of a seismic network, specifically configured for mountain areas, to monitor avalanches in remote and inaccessible places, useful for a more complete understanding of the phenomenon”.
Un nuovo studio, frutto della collaborazione tra Sapienza, Ingv e Cnr, ha rilevato alcune variazioni del livello delle acque di falda in Italia centrale, riconducibili a terremoti lontani, avvenuti persino in altri continenti. La “caccia” al precursore sismico continua, stavolta con un elemento in più. Come già documentato negli ultimi anni in numerosi studi, esiste una associazione tra lo scatenarsi dei terremoti e le variazioni nella circolazione delle acque sotterranee. Quello che ancora non è adeguatamente noto è come tale fenomeno riguardi anche i telesismi, terremoti lontani, avvenuti in altri continenti, i cui effetti sono avvertiti a migliaia di chilometri dall’epicentro. A far luce sulla inaspettata relazione tra sismicità e falde acquifere è un nuovo studio, frutto della collaborazione tra il Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e il Consiglio Nazionale delle Ricerche. I risultati, pubblicati sulla rivista Scientific Reports, rappresentano un ulteriore passo verso una possibile futura identificazione di precursori sismici nelle acque. I ricercatori hanno monitorato per cinque anni il livello di una falda acquifera a Popoli, in Abruzzo, dove hanno osservato, oltre ai segni lasciati da eventi sismici avvenuti nelle immediate vicinanze, un comportamento anomalo delle acque, il cui motore scatenante era dall’altra parte della Terra: sono state identificate 18 forti oscillazioni come risposta “impulsiva” delle acque sotterranee ai terremoti di magnitudo superiore a 6.5 avvenuti in tutto il mondo, anche a oltre 18.000 chilometri di distanza dal sito di osservazione. Lo studio inoltre attesta una correlazione tra la distanza del terremoto e la sua magnitudo con l’entità dell’oscillazione della falda freatica: una evidenza che conferma l’importanza di questi fattori nel controllo del comportamento delle acque sotterranee in un determinato sito, e non solo. “La natura degli acquiferi – spiega Marco Petitta del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza – gioca un ruolo sicuramente fondamentale nella risposta delle acque all’attività sismica. Contrariamente a quanto avviene per gli acquiferi porosi, gli acquiferi carbonatici intensamente fratturati, come quello da noi monitorato in Abruzzo, si rivelano molto più sensibili agli eventi deformativi. Proprio questo aspetto diventa essenziale nell’identificare un sito idrosensibile alla sismicità”. Il fenomeno, recentemente evidenziato anche da uno studio simile condotto in Cina, rimane ancora materia di approfondimento del team di ricerca. Intanto i risultati dello studio aprono nuove vie sui criteri di cui tener conto nella scelta del sito che si intende monitorare e rappresentano una guida nel campo dei monitoraggi idrogeologici applicati ai fini sismici.
30 settembre 2020
El Salvador, scoperta la vera data della misteriosa e colossale eruzione della Tierra Blanca Joven che sconvolse la civiltà Maya.
Un approccio multidisciplinare ha consentito di identificare per la prima volta la data esatta della violenta eruzione che nel V secolo d.C. sconvolse la regione Centroamericana.
Un team internazionale di ricercatori, cui ha preso parte l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), ha individuato nel 431 d.C., con un margine di incertezza di circa due anni, la data esatta dell’eruzione della caldera vulcanica Ilopango, detta della Tierra Blanca Joven, nello Stato centroamericano di El Salvador. L’obiettivo della ricerca era datare definitivamente l’eruzione chiarendo gli impatti che questo evento ebbe nella regione, sia sul clima e l’ambiente che sulla vita dell’uomo, facendo quindi un ulteriore passo in avanti rispetto agli studi precedenti. La violenta eruzione, che si conosceva fosse avvenuta nel periodo compreso tra il 300 e il 600, ricoprì con uno spesso strato di cenere bianca e detriti (in parte ancora visibili) vaste aree di El Salvador, tra cui siti risalenti al cosiddetto “periodo classico” della antica civiltà Maya, rendendo inabitabile per decenni un’area nel raggio di 80 km dal vulcano.Inoltre, alcune evidenze archeologiche indicano che, intorno alla data del 431 d.C., in El Salvador si verificò un’improvvisa interruzione della produzione delle ceramiche Maya, inattività quindi compatibile con il catastrofico evento naturale che colpì la zona. Grazie a competenze multidisciplinari messe in campo dal gruppo proveniente da 12 Istituti di ricerca (tra cui l’Università di Oxford e l’UNAM, Università Nazionale Autonoma del Messico), gli autori dello studio ‘The magnitude and impact of the 431 CE Tierra Blanca Joven eruption of Ilopango, El Salvador’, appena pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (USA), hanno combinato dati geologici e archeologici provenienti dall’America centrale con le analisi chimiche di carote di ghiaccio della Groenlandia e dell’Antartico. L’eruzione, secondo le stime effettuate dai ricercatori, avrebbe prodotto una colonna di gas e cenere alta circa 45 km. Grazie alla comparazione tra la datazione al carbonio-14 dei tronchi degli alberi abbattuti dalla forza dell’eruzione e rinvenuti nei residui del flusso piroclastico e le analisi chimiche dei prodotti eruttati e dei frammenti di vetro vulcanico presenti nelle carote di ghiaccio prelevate, è stato possibile individuare una corrispondenza che indica la provenienza dei reperti non soltanto dallo stesso arco temporale ma esattamente dallo stesso evento eruttivo. Da un punto di vista climatico, inoltre, l’eruzione sembrerebbe aver raffreddato di mezzo grado centigrado la temperatura media della Terra su scala globale, anche se per un periodo piuttosto limitato di alcuni anni; gli effetti più intensi interessarono maggiormente la regione stessa del centro America in cui ebbe luogo l’evento.
Sulla rivista internazionale PNAS
An international team of researchers, in which the National Institute of Geophysics and Volcanology (INGV) took part, has identified that in 431 AD, with a margin of uncertainty of about two years, there was an eruption, known as of Tierra Blanca Joven, of the volcanic caldera Ilopango in the Central American State of El Salvador. The aim of the research was to definitively date the eruption by clarifying the impacts that this event had in the region, both on the climate and the environment and on human life, thus taking a further step forward compared to previous studies.
The violent eruption, which was known to have occurred in the period between 300 and 600, covered with a thick layer of white ash and debris (partly still visible) large areas of El Salvador, including sites dating back to the so-called “classical period” ff the ancient Mayan civilization, making an area within 80 km from the volcano uninhabitable for decades.
Furthermore, some archaeological evidence indicates that, around the date of 431 AD, in El Salvador there was a sudden interruption of the production of Maya ceramics, therefore inactivity compatible with the catastrophic natural event that struck the area. Thanks to multidisciplinary skills put in place by the group coming from 12 research Institutes (including the University of Oxford and UNAM, the National Autonomous University of Mexico), the authors of the study ‘The magnitude and impact of the 431 CE
Tierra Blanca Joven eruption of Ilopango, El Salvador’, just published in the scientific journal Proceedings of the National Academy of Sciences (USA), combined geological and archaeological data from Central America with chemical analysis of ice cores from Greenland and Antarctica.
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27 agosto 2020
Scoperta una correlazione tra terremoti e anidride carbonica in Appennino
Nella catena appenninica l’emissione di CO2 di origine profonda appare ben correlata con l’occorrenza e l’evoluzione delle sequenze sismiche dell’ultimo decennio. È questo il risultato dello studio “Correlation between tectonic CO2 Earth degassing and seismicity is revealed by a ten-year record in the Apennines, Italy” condotto da un team di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell’Università di Perugia (UNIPG) appena pubblicato su ‘Science Advances’.
Il nostro pianeta rilascia CO2 di origine profonda prevalentemente dai vulcani; tuttavia tali emissioni avvengono anche in aree sismiche in cui non sono presenti vulcani attivi. In particolare, questo fenomeno risulta più intenso nelle regioni caratterizzate da tettonica estensionale, come l’area degli Appennini. Questa produzione continua di CO2 in profondità e su larga scala favorisce la formazione di serbatoi sovrapressurizzati. Lo studio è stato condotto attraverso il campionamento di sorgenti ad alta portata (decine di migliaia di litri al secondo) situate nelle vicinanze delle zone epicentrali dei terremoti verificatisi in Italia centrale tra il 2009 e il 2018.
Abstract
Deep CO 2 emissions characterize many non-volcanic, seismically active regions worldwide and the involvement of deep CO 2 in the earthquake cycle is now generally recognized. However, no long-time records of such emissions have been published and the temporal relations between earthquake occurrence and tectonic CO 2 release remain enigmatic. Here we report a ten-year record (2009-2018) of tectonic CO 2 flux in the Apennines (Italy) during intense seismicity. The gas emission correlates with the evolution of the seismic sequences: peaks in the deep CO 2 flux are observed in periods of high seismicity and decays as the energy and number of earthquakes decrease. We propose that the evolution of seismicity is modulated by the ascent of CO 2 accumulated in crustal reservoirs and originating from the melting of subducted carbonates. This large scale, continuous process of CO 2 production favors the formation of overpressurized CO 2 -rich reservoirs potentially able to trigger earthquakes at crustal depth.
18 agosto 2020
Le faglie dell’Appennino centrale studiate con un metodo innovativo multidisciplinare
Applicato un metodo innovativo per determinare la velocità di accumulo di energia per le faglie dell’Appennino centrale attraverso l’uso di dati geodetici e di stress.
Attraverso una innovativa analisi multidisciplinare, risultato delle osservazioni geodetiche di circa 20 anni e di un gran numero di dati aggiornati sulla direzione dello sforzo tettonico, è possibile quantificare la velocità del movimento delle faglie attive dell’Appennino centrale. Questo approccio potrebbe essere decisivo per determinare meglio la velocità del movimento delle faglie in un modo completamente innovativo e complementare alle classiche ed affidabili tecniche geologiche
È quanto è stato fatto nello studio “Partitioning the Ongoing Extension of the Central Apennines (Italy): Fault Slip Rates and Bulk Deformation Rates from Geodetic and Stress Data” pubblicato sulla rivista ‘Journal of Geophysical Research – Solid Earth’. La ricerca, che ha coinvolto competenze geodetiche, geologiche e modellistiche dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), è stata condotta in collaborazione con il Department of Earth, Planetary, and Space Sciences dell’University of California di Los Angeles (UCLA).
Come è noto, i terremoti sono generati da faglie, grandi piani in corrispondenza dei quali porzioni della crosta terrestre si muovono in tempi geologici l’una rispetto all’altra parallelamente al piano della faglia stessa. La velocità media su tempi geologici con cui questo processo avviene, chiamata slip rate nella letteratura scientifica, è un parametro cruciale perché quantifica il potenziale di ciascuna faglia all’interno dei modelli elaborati per valutare la pericolosità sismica di una data regione.
“Questo lavoro”, spiega Michele Carafa, autore della ricerca, “nasce durante la mia permanenza all’UCLA e si è sviluppato nell’ambito del “FIRB Abruzzo”, un importante progetto finanziato dal MIUR tra il 2011 e il 2016 e denominato ‘Indagini ad alta risoluzione per la stima della pericolosità̀ e del rischio sismico nelle aree colpite dal terremoto del 6 aprile 2009’. A mia memoria”, continua Carafa, “questa è la prima ricerca a livello europeo che mira esplicitamente a determinare lo slip rate di tutte le faglie attive presenti in un’importante area sismica, usando congiuntamente informazioni di diversa natura attualmente disponibili nel campo delle geoscienze, come i dati GPS e quelli che descrivono l’orientazione del campo dello sforzo in un materiale viscoelastico, quale è la crosta terreste.
Se il primo step dello studio è frutto esclusivamente delle competenze dell’INGV, ben indirizzate dall’esperienza del collega Peter Bird della UCLA, gli sviluppi di questa ricerca, finalizzati ad una migliore comprensione dell’evoluzione geologica dell’area, vedranno le collaborazioni scientifiche con l’Università degli Studi dell’Aquila e con il Gran Sasso Science Institute (GSSI).
“Il metodo utilizzato per questa ricerca”, conclude il ricercatore, “è del tutto innovativo e richiede interazione con ulteriori competenze quali, ad esempio, quelle matematiche ed informatiche. C’è tanto da fare, ma integrare diverse competenze è stata una scelta vincente e ritengo sia sicuramente la strada da seguire per rendere questo tipo di ricerca utile per la collettività. Al riguardo, ci lusinga che la stessa Regione Abruzzo si sia mostrata da subito estremamente interessata a questa ricerca aggiungendo alla rete geodetica regionale – sotto la nostra supervisione scientifica – nuove stazioni GNSS collocate in siti strategici, proprio per poter migliorare il nostro modello”.
27 luglio 2020
INGV, la riduzione del rumore sismico mondiale grazie al “silenzio” indotto dal Covid-19
Nel primo semestre del 2020 i Governi di moltissimi Paesi hanno adottato ampie misure di lockdown della popolazione per combattere la diffusione della pandemia da Covid-19.
Con lo studio “Global quieting of high-frequency seismic noise due to COVID-19 pandemic lockdown measures”, appena pubblicato sulla rivista Science, i ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) hanno fatto parte di un team internazionale proveniente da altre 66 Istituzioni di 27 Paesi, evidenziando una eccezionale riduzione del 50% dell’ampiezza del rumore sismico a livello mondiale.
“Grazie all’analisi dei dati raccolti da stazioni sismiche installate in tutto il mondo”, spiega Flavio Cannavò, ricercatore dell’INGV e co-autore dello studio, “abbiamo potuto evidenziare come negli ultimi mesi il rumore sismico si sia ridotto in molti Paesi rispetto ai valori medi degli ultimi anni, mostrando un’ondata di attenuazione che, seguendo le tempistiche del lockdown nelle varie aree del pianeta, si è mossa dalla Cina, all’Italia e al resto del mondo”.
Il “lockdown sismico”, risultato delle misure di distanziamento sociale, della riduzione delle attività economiche e industriali e della contrazione degli spostamenti, ha rappresentato la riduzione del rumore sismico antropogenico più lunga e più importante mai registrata nella storia.
“Grazie al lavoro di squadra che ha coinvolto scienziati in così tanti Paesi”, prosegue il ricercatore, “è stato possibile analizzare i dati provenienti da centinaia di stazioni di monitoraggio sismico in tutto il mondo per ‘isolare’ le vibrazioni ad alta frequenza tipiche delle attività umane che vengono costantemente registrate dai sismometri. Se il 2020 non ha visto una riduzione del numero medio di terremoti, il calo del ‘ronzio’ sismico antropogenico è stato invece senza precedenti”.
Le più forti riduzioni del rumore sismico sono state riscontrate nelle aree urbane, ma lo studio ha evidenziato riduzioni anche in sensori siti in pozzi a centinaia di metri di profondità e in aree particolarmente remote, come nell’Africa subsahariana.
Lo studio ha inoltre evidenziato una forte corrispondenza tra la riduzione del rumore sismico e i dati sulla mobilità umana ricavati dalle app di navigazione nei telefoni cellulari, resi pubblici dalle società Google e Apple. Questa correlazione mostra come i dati sismici possano essere utilizzati per il monitoraggio delle attività umane in tempo quasi reale, nonché per quantificare gli effetti dei lockdown e delle riaperture, evitando così problematiche complesse legate alla privacy.
“Gli effetti ambientali del lockdown sono stati ampi e svariati”, aggiunge Cannavò. “Tra questi vanno ricordati in particolare la riduzione delle emissioni in atmosfera e la riduzione del traffico e dell’inquinamento acustico, che incidono sulla fauna selvatica. Per caratterizzare tale intervallo di tempo è stato coniato il termine ‘antropausa’. Il nostro studio rappresenta quindi il primo lavoro scientifico sull’impatto dell’antropausa sulla Terra solida sotto i nostri piedi a scala globale”.
La ricerca pubblicata su Science ha inoltre evidenziato come segnali di terremoti precedentemente ‘nascosti’ nel rumore sismico antropogenico siano risultati essere più chiari durante il lockdown.
“Con la crescente urbanizzazione e l’aumento della popolazione mondiale, in futuro sempre più persone vivranno in aree geologicamente a rischio. Pertanto, affinché i sismologi possano ‘ascoltare’ meglio la Terra, diventerà sempre più importante caratterizzare il rumore antropogenico. L’auspicio è, dunque, che vengano portate avanti ulteriori ricerche sul ‘lockdown sismico’ con l’obiettivo di individuare segnali prodotti da terremoti ed eruzioni vulcaniche precedentemente nascosti dal rumore”, conclude il ricercatore.
Questo studio svolto su scala mondiale offre compiutezza alle analoghe analisi condotte recentemente sul rumore sismico solo sul territorio italiano dai ricercatori dell’INGV.
Lo studio su Science è liberamente scaricabile
22 giugno 2020
Nuovi risultati sull’attività della caldera dei Campi Flegrei dal monitoraggio del radon durante sette anni.
Il monitoraggio del radon emesso nell’area dei Campi Flegrei per un lungo periodo offre nuovi dati per la valutazione della reale estensione dell’area interessata dai fenomeni idrotermali, rivelandosi anche un potenziale indicatore dell’evoluzione di una crisi vulcanica.
Con uno studio durato sette anni, dal 2011 al 2017, un team di ricercatori del Dipartimento di Matematica e Fisica dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) hanno monitorato il radon emesso in due siti della caldera dei Campi Flegrei i cui risultati sono stati appena pubblicati sulla rivista Scientific Reports di Nature nell’articolo ‘Continuous radon monitoring during seven years of volcanic unrest at Campi Flegrei caldera (Italy)‘.
Negli ultimi anni, l’interesse della comunità scientifica internazionale verso lo studio dell’emissione di radon come tracciante di fenomeni endogeni naturali (attività sismica e vulcanica) è cresciuto considerevolmente. Tuttavia, il segnale del radon monitorato nei suoli, è influenzato da molti fattori ambientali i cui effetti possono essere eliminati quando viene registrato su un lungo periodo.
Gli studiosi hanno preso in considerazione la caldera dei Campi Flegrei che dal 2004-2005 è caratterizzata da sollevamento del suolo, sismicità, cambiamenti nella composizione dei fluidi fumarolici e un aumento generale dell’emissione di fluidi vulcanico-idrotermali. Liberamente scaricabile l’articolo apparso su Nature ( in inglese)
Link all’articolo: https://www.nature.com/articles/s41598-020-66590-w
27 maggio 2020
I Monti Sabatini e i Colli Albani: un nuovo capitolo della storia dei vulcani laziali
La storia dei ‘gemelli addormentati’ vede un nuovo capitolo negli studi di un team internazionale di ricercatori coordinati dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.
Lo stato di attività del distretto vulcanico dei Monti Sabatini, sito a NW della città di Roma, è l’oggetto dello studio “Monti Sabatini and Colli Albani: the dormant twin volcanoes at the gates of Rome” appena pubblicato sulla rivista Scientific Reports di Nature e frutto della collaborazione tra scienziati dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), dell’Università Sapienza di Roma e del Laboratorio di Geocronologia della Wisconsin University.
Gli scienziati hanno messo in campo un approccio multidisciplinare attraverso l’uso di tre diverse metodologie di indagine: il telerilevamento per le deformazioni del suolo, la datazione 40Ar/39Ar per la storia eruttiva, e l’analisi della sismicità storica della regione vulcanica. In tal modo è stato possibile paragonare i caratteri vulcano-tettonici del distretto sabatino con quelli recentemente studiati nell’area dei Colli Albani.
I risultati di questo studio mostrano che i Monti Sabatini hanno avuto una storia eruttiva molto simile e contemporanea a quella dei Colli Albani, anche se con tempistiche di ricorrenza media diversa, tanto da poterli considerare due “gemelli addormentati alle porte di Roma”.
Una differenza attuale fondamentale, però, è risultata dall’analisi della deformazione del suolo e della sismicità locale. Infatti, mentre i Monti Sabatini mostrano uno stato di quiete quasi assoluta, ai Colli Albani si registra un sollevamento locale ed una diffusa sismicità e degassazione.
Inoltre, dall’analisi delle tempistiche storiche risulta che il tempo attualmente trascorso dall’ultima eruzione dei Monti Sabatini è di circa 70.000 anni, rientrando pienamente nelle valutazioni dei periodi medi di quiescenza tra le tre grandi fasi eruttive avvenute negli ultimi 600.000 anni.
“I Monti Sabatini, così come i Colli Albani, non possono essere considerati vulcani estinti”, sottolinea Fabrizio Marra, ricercatore INGV e autore della ricerca. “Tuttavia, entrambi i distretti vulcanici si trovano in uno stato che possiamo definire ‘dormiente’, in un sonno che per i Monti Sabatini è profondo e tranquillo e per i Colli Albani è inquieto”, prosegue il ricercatore. “In ogni caso, entrambi i distretti vulcanici laziali offriranno congrui periodi di tempo di segnali precursori prima di una loro eventuale ripresa dell’attività vulcanica”, conclude Fabrizio Marra.
Abstract
This multi-disciplinary work provides an updated assessment of possible future eruptive scenarios for the city of Rome. Seven new 40Ar/39Ar ages from selected products of the Monti Sabatini and Vulsini volcanic districts, along with a compilation of all the literature ages on the Colli Albani and Vico products, are used to reconstruct and compare the eruptive histories of the Monti Sabatini and Colli Albani over the last 900 ka, in order to define their present state of activity. Petrographic analyses of the dated units characterize the crystal cargo, and Advanced-InSAR analysis highlights active deformation in the MS. We also review the historical and instrumental seismicity affecting this region. Based on the chronology of the most recent phases and the time elapsed between the last eruptions, we conclude that the waning/extinguishment of eruptive activity shifted progressively from NW to SE, from northern Latium toward the Neapolitan area, crossing the city of Rome. Although Monti Sabatini is unaffected by the unrest indicators presently occurring at the Colli Albani, it should be regarded as a dormant volcanic district, as the time of 70 kyr elapsed since the last eruption is of the same order of the longest dormancies occurred in the past.
La scheda
Chi: Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), Università Sapienza di Roma e Wisconsin University
Cosa: Studio “Monti Sabatini and Colli Albani: the dormant twin volcanoes at the gates of Rome“. Dalle ricerche emerge che i Monti Sabatini hanno avuto una storia eruttiva molto simile e contemporanea a quella dei Colli Albani, tanto da considerarli “vulcani gemelli alle porte di Roma“.
Dove: Pubblicato sulla rivista internazionale Scientific Reports di Nature https://www.nature.com/articles/s41598-020-65394-2
6 maggio 2020
I ricercatori dell’azoto perduto (nel pianeta Terra?)
L’atmosfera terrestre è composta per il 78% di azoto e il 21% di ossigeno, una miscela unica nel sistema solare. L’ossigeno è stato prodotto da alcuni dei primi organismi viventi. Ma da dove viene l’azoto? È fuggito dal mantello terrestre attraverso l’attività vulcanica?
Per cercare di rispondere a queste domande, un team internazionale di ricercatori anche dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), ha raccolto e studiato campioni di gas da diversi sistemi vulcanici sul nostro pianeta, tra cui lo Yellowstone, l’Islanda, il rift continentale Africano. Il loro studio “Hydrothermal 15N15N abundances constrain the origins of mantle nitrogen”, recentemente pubblicato sulla rivista Nature, mostra che l’azoto del mantello terrestre non ha la stessa composizione isotopica dell’azoto atmosferico, il che implica che quest’ultimo non proviene dal degassamento del mantello.
“È stato scoperto che la contaminazione dell’aria stava mascherando la ‘firma originale’ di molti campioni di gas vulcanici“, afferma Antonio Caracausi, ricercatore dell’INGV e coautore della ricerca.
Senza questa distinzione, gli scienziati non erano in grado di rispondere a domande di base come: l’azoto è rimasto dalla formazione terrestre o è stato consegnato al pianeta in seguito? In che modo l’azoto dell’atmosfera è collegato all’azoto che esce dai vulcani?
Lo studio è basato su una nuova e innovativa metodologia per studiare gli isotopi dell’azoto. Questo metodo ha fornito un modo unico per identificare le molecole di azoto che provengono dall’aria, ed ha permesso ai ricercatori di individuare la composizione di gas in profondità all’interno del mantello terrestre. Questo alla fine ha rivelato la prova che l’azoto nel mantello è molto probabilmente presente da quando il nostro pianeta si è inizialmente formato. Quindi, “una volta presa in considerazione la contaminazione dell’aria, abbiamo acquisito nuove e preziose informazioni sull’origine dell’azoto e sull’evoluzione del nostro pianeta“, afferma lo scienziato.
Inoltre, questi nuovi risultati hanno permesso di distinguere nei geyser, nelle fumarole e nelle altre manifestazioni naturali di gas vulcanici, il contributo dell’atmosfera (sotto forma di acqua piovana riscaldata) da quello del mantello terrestre (gas magmatico). Ad esempio, quantità di gas magmatico sono state riconosciute nei geyser nel Parco Nazionale di Yellowstone, indicando una rinnovata attività del sistema vulcanico.
Data l’alta precisione di questi dati, essi potrebbero anche contribuire ad una più approfondita comprensione dei processi magmatici potenzialmente capaci di generare eruzioni vulcaniche. I campioni continuano a essere raccolti a Yellowstone e in altri sistemi vulcanici attivi nel mondo, tra cui l’Etna che è il vulcano più attivo d’Europa.
In ogni caso, l’origine dell’azoto atmosferico resta un mistero … per ora.
La scheda
Chi: Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Sezione di Palermo (PA-INGV), nell’ambito di un team internazionale di ricercatori
Cosa: Ricercare la provenienza dell’azoto presente nell’atmosfera terrestre e nel mantello della crosta. I risultati evidenziano che la composizione isotopica dell’azoto atmosferico è diversa di quella presente nella Terra.
Dove: Studio “Hydrothermal 15N15N abundances constrain the origins of mantle nitrogen”, pubblicato sulla rivista Nature.